THE ROAD FROM ARIANO
IRPINO. |
Prefazione (di M. Sorrentino) |
Introduzione (pp. 3-4) |
Capitolo Secondo (pp.
27-31) |
Capitolo Terzo (pp. 37-38) |
Capitolo Settimo (pp. 102-105) Gli operai della ferrovia, eccetto pochi settentrionali, erano per la maggior parte lavoratori reclutati nei dintorni di Napoli, o per via, a mano a mano che avanzava il tracciato. In mezzo a loro, un miscuglio poliglotta di contrabbandieri italiani e francesi, tedeschi giramondo e vagabondi austriaci, socialisti e briganti in fuga dalla legge. Anche contadini, avventurieri, i soliti giocatori d’azzardo e la gente strana che segue i cantieri. Le squadre lavoravano nella zona detta ‘la Cristina’, e gli operai erano ormai belli e stanchi dei venditori ambulanti, infidi come zingari, che li seguivano per vendergli le cose di cui avevano bisogno. Ed erano nauseati del pane ammuffito e stantio, delle zuppe scotte e oleose, mischiate con frattaglie immangiabili e scarti di carne grassa nelle marmitte della ditta. Gli operai cominciarono a salire al paese per comprare roba da mangiare. Volevano roba decente, ma a credito. Perché a credito? Perché l’appaltatore, un certo signor Melisurgo, per contratto avrebbe dovuto pagare gli operai ogni quindici giorni, ma una volta sì, una volta no, il giorno di paga cambiava. Cambiava in base al capriccio dei burocrati dell’ufficio amministrativo, ragionieri e cassieri, così rapaci come solo sanno esserlo dei subordinati dalla mente meschina che si ritrovano con un po’ di potere tra le mani. Erano questi impiegati completamente succubi delle lusinghe e dell’opera di corruzione degli amministratori dei comuni posti lungo il tracciato. Presi dall’ansia che gli operai potessero non spendere le loro paghe nelle cantine e negli altri negozi del proprio paese, questi amministratori corrompevano i cassieri della ditta affinché rimandassero o anticipassero i pagamenti agli operai (a seconda che i cantieri stessero per entrare o per andar via dai loro territori)(1) Per quanto favorevole potesse sembrare la loro presenza, in tutta onestà, nessuno, eccetto ovviamente gli ingenui, avrebbe potuto considerare quegli uomini, che si spostavano continuamente per deporre i binari lungo il tracciato, gente di cui fidarsi al punto di fargli credito. Si trattava di un branco di rozzi manovali che si rinnovava continuamente. Erano abituati a dormire nei carri ferroviari su giacigli di paglia. E molti dormivano addirittura sotto le stelle, coperti da stracci e sulla paglia pure loro. Dormivano con la pala e il piccone a fianco, perché se li perdevano glieli addebitavano sulla paga. Alcuni di loro più fortunati, lavoratori specializzati dell’Alta Italia, per lo più, erano alloggiati nell’ospedale dell’Annunziata. Placido aveva clienti tra gli operai. Quell’impresa straordinaria della ferrovia, pensava, poteva essere una buona opportunità per il suo spaccio. Fu sedotto e si convinse, dopo qualche riluttanza, a dar via la roba a credito. Gli operai promettevano, giuravano che avrebbero pagato scrupolosamente – “per la Madonna”, quando a loro volta fossero stati pagati dai capi. Placido veniva dunque continuamente rassicurato che avrebbe ricevuto i suoi soldi. Sapeva di correre dei rischi, ma quando si sarebbe più presentata una possibilità come quella per migliorare la propria sorte? Quante altre ferrovie sarebbero mai arrivate da quelle parti? Era sicuro che la Provvidenza gli stesse sorridendo, perciò fece la scommessa che avrebbe avuto fortuna. Passò del tempo ma, per la verità, di pagamenti di qualche importanza neanche l’ombra: Placido non incassò se non complimenti e promesse. I lavori della ferrovia si spostavano in avanti, sempre più lontano dal territorio comunale, e gli operai continuavano a promettere che avrebbero pagato. Alcuni ancora tornavano alla fine della giornata di lavoro, un lungo e arduo viaggio a piedi su per la montagna, per mangiare qualcosa e poi bighellonare nelle piazze del paese. Quando finalmente gli operai vennero pagati, si trovavano però già a Pianerottolo, fuori del territorio montecalvese. I clienti di Placido, naturalmente, si erano spostati insieme al loro cantiere, che era quello di testa. Dopo aver aspettato pazientemente un bel pezzetto senza ricevere neanche un soldo, su insistenza di Anna, sua moglie, Placido andò a cercare gli operai per farsi pagare. Portò con sé il figlio Gaetano, allora soltanto un ragazzino. I fornitori dello spaccio stavano diventando nervosi e minacciavano denunce. Placido si sentiva perciò obbligato a partire e tentare di incassare: non aveva scelta. Andarono al cantiere, il padre con la lista dei debitori in mano. Si misero a cercare facce conosciute nella folla degli operai. Prima però Placido aveva chiesto il permesso al padrone del cantiere, il quale per tutta risposta aveva detto con tono sprezzante: “Accomodati pure!” Non era nuova quella storia per l’appaltatore: a partire da Napoli, si era ripetuta quasi in ogni posto in cui il cantiere era passato. Placido aveva tenuto la sua lista aggiornata, con tutti i nomi e i crediti scritti con cura. Una cosa priva di senso, perché la stragrande maggioranza degli operai non sapeva leggere niente, figurarsi un conto. Sapevano soltanto firmare con un segno di croce. Era una cosa stupefacente come certi scarabocchi e segni di croce somigliassero a tanti altri, ingenerando dubbi sia nel venditore che nel cliente. I conti che Placido mostrava venivano negati con veemenza. E si spaventò quando alcuni operai gli chiesero quanti dei suoi ex clienti della lista erano già morti, o magari rientrati a casa gravemente ammalati, mentre il cantiere, fatti i bagagli, si era spostato. Altri li salutavano con urli di “Ué” o con fischi, per mettere in
guardia altri bei tomi pari loro che lavoravano più avanti lungo i binari. Molti
negavano il debito, se mai si riusciva a scovarli dopo che erano stati
preavvertiti. Lo negavano con una bugia già sperimentata, rispondendo che
neanche sapevano dov’era Montecalvo, figurarsi il suo negozio. Così maltrattati,
padre e figlio alla fine non sapevano che altro fare – come se ci fosse una
qualsiasi cosa che potessero fare. Dopo l’irrisione con cui i pagamenti erano
stati negati, il clima si stava facendo brutto veramente. Se Placido e il figlio
non se la fossero data a gambe alla svelta, certamente la folla minacciosa li
avrebbe massacrati di botte volentieri, come ricompensa per la loro
ingenuità. |
Capitolo Nono (pp. 147-150) Mandato una volta da sua madre - la compassionevole Anna – Gaetano portò al municipio dei vecchi panni da dare a Liberatore. Si trattava dei vestiti appartenuti a un vicino di casa passato a miglior vita che lei pensava potessero andar bene al vecchio. Le donne compassionevoli comprendono quali sono le forze e gli istinti che possono abbrutire un uomo. E sono tolleranti verso chi li subisce, anche se moralmente considerano quelle forze e quegli istinti aberranti. Più tolleranti degli uomini, ad ogni modo. La ragione forse dipende da qualcosa presente nel patrimonio genetico delle donne. Comunque, la roba portata al comune da Gaetano era così lisa che poteva essere difficilmente indossata, ma allora i vestiti venivano portati finché non si lacerava l’ultima fibra. In quell’occasione capitò che i due s’incontrassero. La cosa li colse entrambi di sorpresa. Gaetano in seguito cercò di ricordare se lo zio fosse veramente così basso, o se non fosse piuttosto piegato dai reumatismi. Il ragazzo non s’era trattenuto abbastanza a lungo da poter ricordare bene l’incontro. Aveva deposto il pacco a terra vicino a Liberatore, lì nell’atrio del municipio. Solo più tardi ricordò che aveva provato un senso di paura, di cui non sapeva spiegarsi il motivo. Più tardi capì che quel sentimento era ingiustificato e che il vecchio non avrebbe potuto né voluto far del male a nessuno. Si era girato per andar via, dopo un attimo d’esitazione, quando sentì pronunciare il suo nome: “Gaetano”. Doveva essere stato Liberatore. Ma Gaetano non ne fu mai certo. Echeggiava qualcosa nel tono di quella voce: una domanda? un’affermazione? un lamento? Non riusciva a decidersi tra queste tre possibilità, quando più tardi suo padre l’interrogò. Dopo qualche tempo dubitò di aver mai udito il nome. Aveva forse il vecchio riconosciuto nei lineamenti del ragazzo qualcosa che per un istante straordinario aveva riportato alla luce un ricordo del suo passato? Si può immaginare con quanta dolcezza sarà risuonato quel nome sulle labbra di Liberatore? Il sensibile Gaetano non dimenticò mai quell’incontro casuale. Il suo ricordo lo accompagnò tutta la vita. Alla fine, la triste storia di Liberatore gli fu svelata. Anna fu costretta a rivelargli il passato travagliato del prete, tanto incalzanti erano diventate le domande del ragazzo. Suo padre, gli fece capire la madre, si vergognava di essere parente di uno che non poteva essere redento nel modo più assoluto. Un “ubriacone dimenticato da Dio”, diceva il padre. Ma si sbagliava: Dio non abbandonò mai Liberatore. E siamo sicuri che anche Liberatore lo pensava. Come possiamo sapere una cosa simile? Be’, perché quando fu trovato morto stringeva nella sua mano esile il rosario. Un rosario fatto di noccioli di olive che provenivano, come si diceva, da un ulivo del Getsemani. Era un segno certo che egli si considerava ancora un cristiano, anche se indegno agli occhi degli altri. C’era poi un altro segno… esito a parlarne, però sulla pelle rinsecchita e tesa della fronte di Liberatore era graffiato il segno della croce. Chi poteva averlo tracciato se non il prete in persona? Che cosa voleva esprimere con quel segno? Toccò a Gaetano portare a seppellire Liberatore, con un carretto e un cavallo presi a prestito. Pure a prestito era il becchino comunale che se ne stava seduto sul carretto accanto al cadavere piccolino di Liberatore avvolto nel sudario. Del lusso di una bara di legno di pino, neanche a pensarci. I due erano tutto il corteo che presenziò al triste rito finale del prete scomunicato. Lo portarono al cimitero e lo seppellirono in una fossa anonima. Né una croce né una lapide distinguevano la fossa. Niente di niente. Non piantarono nella terra soffice appena scavata neanche un ramo strappato da qualche siepe vicina, in commemorazione del defunto. Quando ebbero finito e Liberatore se ne stava al sicuro nell’abbraccio della madre terra, il ragazzo fu sopraffatto all’improvviso dalla compassione. Sentiva di dover fare qualcosa, magari raccogliere un po’ di fiori selvatici, di boccioli di trifoglio, o anche dell’erba tenera da deporre sul tumulo. Esitò e non ne fece niente, temendo una qualche parola beffarda del becchino impaziente. Il degno lavoratore voleva andarsene subito e brontolava: “Ci ho guadagnato una miseria con questo lavoro. Solo tempo sprecato per un cadavere che non se lo merita”. |
Capitolo Undicesimo (177-180) L’ufficio postale, a quel tempo, era ricavato in una stanza di sasso che si affacciava sulla piazza che (oggi) è detta di San Pompilio M. Pirrotti. Lo spazio era stato recuperato dal vecchio Ospedale di Santa Caterina. La piccola stanza era stata in altri tempi una specie di atrio presidiato da monaci e monache, che vi facevano una cernita rudimentale degli ammalati da ricoverare. Sfortunatamente l’ospedale era stato già distrutto molti anni prima da un terremoto che aveva devastato gran parte del paese. Dopo aver fermato il suo biroccio davanti all’ufficio postale, il conducente scendeva e stringeva la martinicca per evitare che i cavalli si sviassero. Una precauzione necessaria che lo faceva imprecare in più di un’occasione. Era convinto che gli animali diventassero nervosi perché venivano disturbati dai lamenti e mormorii degli spiriti che, secondo lui, abitavano nell’antico edificio. Forse era vero, ma Gaetano, stanco di sentire sempre questa storia, insisteva a spiegare che era il vento il quale, risalendo su per le pendici della montagna, s’infiltrava tra le crepe e le lesioni nei vecchi muri di sasso dell’edificio e faceva quei suoni strani. Il birocciaio non voleva saperne di una spiegazione tanto semplice, sapeva lui quello che sapeva, del resto egli credeva nelle capacità extra sensoriali dei suoi cavalli. L’uomo consegnava il sacco della posta e Gaetano firmava il modulo di ricevimento. A quel punto, dopo aver firmato il registro giornaliero dell’ufficio, il birocciaio prendeva la posta in partenza e la metteva nell’apposito sacco. Su entrambi i sacchi era stampato lo stemma del Regno d’Italia. L’uomo parlava abitualmente con i suoi cavalli. Gli prometteva il meritato riposo giù alla stazione. Sempre le stesse chiacchiere che sembravano avere un effetto calmante sulle bestie. Il viaggio di ritorno alla stazione cominciava dopo aver abbeverato i cavalli alla fontana. L’uomo si serviva del secchio appeso dietro al biroccio, ma, cosa divertente, nell’abbeverarli doveva ricordare quale dei due era stato il primo all’ultima abbeverata. Se scombinava il turno, il cavallo che subiva il torto rovesciava con un calcio il secchio pieno d’acqua, impedendo così al compagno di bere. Il secchio veniva riempito di nuovo e il cavallo beveva indisturbato, mentre l’altro se ne stava tranquillo ad aspettare il turno. Il birocciaio se la godeva un mondo a questa sceneggiata, facendo finta di rimproverare la bestia che aveva rovesciato il secchio per il divertimento di eventuali spettatori. Avrebbe potuto portarsi dietro due secchi, ma se l’avesse fatto, nessuno avrebbe saputo quanto erano intelligenti i suoi animali… Masto Gaetano portava il sacco sigillato nella sua arcaica sede e, dopo averlo aperto, cominciava immediatamente a fare la cernita, disponendo le lettere per zone, poi in base alle vie e infine ai numeri civici, in modo che la posta, i giornali ecc. potessero essere distribuiti il più presto possibile. Alcuni degli anziani della piazza ricevevano regolarmente rimesse dai loro figli emigrati. Spesso la busta conteneva soltanto il vaglia. Raramente nello spazio apposito vi erano altre parole oltre a “Tanti baci”, magari scritte dall’impiegato che aveva emesso il vaglia. E che sarebbero state lette al destinatario dal portalettere. Occasionalmente nella busta c’era una fotografia, allora era una vera festa. Intanto, il gruppo abituale dei perdigiorno della piazza se ne stava in piedi, davanti all’ufficio, a discutere di politica o a scambiarsi gli ultimi pettegolezzi del paese, insomma a sparlare di gusto, aspettando la posta. Non per questo rinunciavano ad esprimere giudizi estetici su una qualche ragazza carina abbastanza temeraria da passare di là. Erano sempre gli stessi, un gruppo che non cambiava mai. Aspettavano e non appena il portalettere apriva il suo sportello, subito cominciavano a chiedergli: “Niente per me?” “Qualcosa per me?”. Gaetano, con grande pazienza, cercava di soddisfare tutte quelle richieste che si accavallavano. La loro impazienza, del resto, alleggeriva in fretta il mucchio di lettere da distribuire. Alcuni ci rimanevano male, se non c’era posta per loro. Gaetano ne conosceva alcuni che non avevano ricevuto posta da anni. Si chiedeva perplesso che cosa mai stessero aspettando: quale parente partito da tempo doveva farsi vivo? Quale fortuna fantasticata nella mente doveva materializzarsi per posta? Prima di allontanarsi dall’ufficio, Gaetano chiudeva la porta e lo sportello che dava sulla piazza. Si faceva largo in mezzo a quelli che ancora restavano davanti all’ufficio e attaccava con i chiodini, sulla tabella di legno fissata a lato dell’ingresso, gli avvisi del governo, se ne erano arrivati. Poi iniziava il giro della piazza: era la prima zona a essere servita. Si fermava davanti alle case che vi si affacciavano, scambiando chiacchiere e consegnando lettere. Prometteva di tornare, per leggere la posta o preparare le lettere di risposta, per quelli che non sapevano leggere e scrivere. Si sentiva nel proprio elemento.
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Capitolo Undicesimo (183-186) Un’altra attività di Gaetano, come se non avesse abbastanza da fare con le altre, era la compravendita di vino. Sua moglie Vittoria, una donna che dovette sopportarlo una vita, giurava che ne beveva più di quanto ne vendeva. E le piaceva ripetere, scherzando soltanto a metà, che la vita del marito si svolgeva tra Dio e il diavolo: la cantina più vicina (che era poi della sorella di lui, Serafina) si trovava infatti in una stradina giusto dietro la chiesa di San Sebastiano. Il risultato di una giornata di assaggi molto generosi di vino fu che Gaetano si sentiva un po’ fuori fase servendo a vespro. Dopo le solite preghiere e il responsorio davanti al Santo Sacramento, nel momento in cui doveva raggiungere don Ciccio sull’altare e mettergli la pianeta sulle spalle… se ne andò. Infilò la porta e via. Piantò il prete che stava sull’altare con le mani alzate in attesa del paramento, dando le spalle alla piccola congregazione. A un certo punto, confuso, don Ciccio si girò e subito si mise a chiamare: “Gaetano… GAETANO!” Ma Gaetano non c’era. Don Ciccio raccolse allora la pianeta, se la mise da solo sulle spalle e finì in fretta e furia la cerimonia. Volò fuori della chiesa e attraversò di corsa la piazza sino alla casa di Gaetano. L’indignazione gli gonfiava il petto. Voleva una spiegazione per quel comportamento irrispettoso. Una bella ramanzina si meritava. Ma Gaetano non era a casa, lì non s’era visto. La paziente Vittoria sospettava che c’entrasse il vino. Comunque, pensava che non spettasse a lei scusare il marito. Don Ciccio lo conosceva altrettanto bene, e certamente da più lungo tempo. Seguì il prete in chiesa per cercare Gaetano, pensando che il marito fosse andato a dormire nella cappella della Madonna del Carmine. Il prete aveva messo nella cappella un banco molto comodo per l’uso dei pellegrini e dei parrocchiani. Lì uno poteva sedere e meditare nella solitudine e nella quiete. E se ne sentiva il bisogno, poteva sdraiarsi sotto lo sguardo protettivo della Madonna e dormire. Il prete non ne avrebbe saputo niente. Ma neanche la Madonna aveva visto Gaetano. I due continuarono a cercarlo in tutti gli angoli della chiesa. Cercarono con attenzione, ma non lo trovarono. La chiesa non era così grande da non poterlo scoprire, se fosse stato lì dentro. Vittoria spedì il figlio Alfonso a cercarlo nelle cantine. Il prete lo avvertì: “Non tornare senza di lui!” Ma nessuno aveva visto il postino. Il ragazzo rimase fuori fin quasi a mezzanotte, chiedendo a tutti quelli che incontrava: “Avete visto Gaetano, il portalettere?” Nessuno l’aveva visto, Gaetano non si trovava da nessuna parte. Alfonso tornò esausto e sconvolto dall’inquietudine e alla madre disse: “Non riesco a trovare papà, nessuno l’ha visto.” Don Ciccio, che non era rimasto ad aspettare il ritorno del ragazzo, era convinto che la terra gli si fosse aperta sotto i piedi, a quel furfante, e Satana se lo fosse portato via. “Gli starebbe bene, sarebbe una lezione ben meritata,” mormorava, mentre si segnava con il segno di croce. Era frustrato per non poter sfogare la sua rabbia sulla zucca di quel miscredente in fuga. La povera moglie sentiva il cuore mancarle e non sapeva che fare. Nella sua mente prendeva forma ogni specie di disgrazia. Poteva essere andato a consegnare una lettera lontano? No, l’avrebbe avvertita. Un comportamento simile non era da Gaetano, che era molto abitudinario. Si abbandonò a questo punto con tutte le sue paure alla preghiera. Stanca e piena di apprensioni, alla fine si ritira a casa. Mentre sta sdraiata sul letto, senza poter prendere sonno, Vittoria sente prima uno sbuffo poi un distinto russare. Sobbalza. Si mette a cercare nella stanza per scoprire da dove provengono quei rumori. Alla fine scopre che Gaetano giace addormentato nella cassa da morto. Cassa da morto? Quale cassa da morto? Torniamo indietro |
(1)La frase tra parentesi è stata aggiunta dal traduttore per chiarire il meccanismo della corruzione.
(2)Una varietà del traìno, ma più
corto e dotato di cassetta coperta per il conducente.
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