Tu
scendi dalle stelle |
La testimonianza di cui sopra ci mostra Sant’Alfonso in Nola, ospite della famiglia Zamparelli, che «compone», ma alla luce delle indagini condotte meglio sarebbe dire, più semplicemente, «scrive», su un pezzo di carta le parole della sua pastorale per poi cantarle, la stessa sera, in una chiesa di Nola. Alcuna indicazione temporale emerge dal racconto né si parla, in esso, di Novena di Natale. Soltanto apprendiamo che «Monsignore» (S. Alfonso) «con altri Padri andarono in Nola a fare «una certa missione» e stavano in casa di questo D. Michele Zambadelli». Non possiamo non rimarcare la superficialità con cui per oltre un secolo, da più parti, risalendo al 1755 la prima pubblicazione a stampa che oggi si conosca del celebre componimento, si è conferito valore probante alla semplicistica e arbitraria equazione: 1755, anno di pubblicazione di Tu scendi dalle stelle = 1754, anno della novena di Natale (sic!) di Sant’Alfonso in Nola e tempo, quindi (sic!), della nascita del canto. Esaminando in modo distaccato la primitiva testimonianza, e ripercorrendo i momenti biografici di Sant’Alfonso in rapporto agli elementi ivi contenuti, ci si rende conto che quando il Santo, trovandosi in Nola ospite della famiglia Zamparelli scrisse su un pezzo di carta le parole di Tu scendi dalle stelle, erano già trascorsi quattro anni dalla prima pubblicazione a stampa di quel testo. In altre parole, l’episodio che maldestramente ha dato i natali nolani al nostro canto natalizio, non si consumò nel 1754, come erroneamente fino ad oggi sostenuto, ma nel 1759, vale a dire quattro anni dopo la sesta edizione delle Operette spirituali, libro di Sant’Alfonso in cui, con il titolo di Canzoncina a Gesù bambino, per i tipi dell’editore napoletano Benedetto Gessari, per la prima volta fu edito il testo della famosa pastorale. L’accurata indagine storiografica, che non risparmia di rilevare gravi inesattezze di accreditati storici redentoristi quali il Rey Mermet e il Tellerìa, dimostra che nessuna missione Sant’Alfonso espletò in Nola nel 1754 e che correva l’anno 1759 quando, come ci informa il Tannoja, ospite della famiglia Zamparelli, si trovava in quella città perché ivi invitato dal vescovo Troiano Caracciolo per redimere un pubblico ufficiale concubino: «Vivendo in Città, da molto tempo, con scandalo comune in pubblico concubinato uno de' primi Officiali Militari, e non potendo darci del riparo il Parroco D. Felice Zambarelli, nè Monsig. Vescovo, si pensò, per ultimo espediente, chiamarvi Alfonso colla S. Missione. Credeva Mons. Caracciolo, tale era l'idea che avea di sua santità, che col solo vedersi in Città, ognuno si sarebbe rimesso». Eravamo sul finire del mese di novembre e Sant’Alfonso, nel presiedere i primi giorni della Novena dell’Immacolata, che ebbe inizio il 29 di quel mese, fu protagonista del celebre episodio. Di contro, la nuova indagine, corroborata da una più attenta rilettura delle preziose indicazioni del padre Antonio Maria Tannoja, storico e primo biografo del Santo napoletano, riporta alla ribalta, conferendole assoluta fondatezza, la plurisecolare tradizione che ci mostra Sant’Alfonso cantare per la prima volta, la notte di Natale del 1744, la sua Tu scendi dalle stelle al cospetto dell’innevata grotta del beato Felice da Corsano in Deliceto, cittadina pugliese ove egli era giunto il 12 dicembre di quell’anno e dove il 24 dicembre, dopo aver predicato quella novena di Natale, prese materialmente possesso delle abbandonate strutture del vecchio convento agostiniano della Consolazione, fondato nel 1470 dall’irpino beato Felice, riformatore cattolico pretridentino originario dello scomparso feudo di Corsano, oggi territorio di Montecalvo Irpino. La miriade di pastori abruzzesi, nella grotta attratti dagli ingenui richiami agiografici del beato Felice che lo additavano quale destinatario di particolari doni divini come la visita di un corvo, che attraverso una finestrella dello speco quotidianamente gli portava una pagnotta di pane, e di un angelo che gli teneva compagnia, suscitò tenerezza nel sensibile animo di Sant’Alfonso che, rifacendosi anche a degli appunti del canonico delicetano Giacomo Casati, non tralasciò di tramandare tali notizie in un suo manoscritto del 1746 in cui, pur prendendo con il beneficio del dubbio i racconti del soprannaturale, sottoscrive e testimonia la parte riguardante la massiccia frequentazione della sacra grotta, termine, quest’ultimo, che impiega ben cinque volte nelle nove pagine di cui si compone il documento: «Trovasi scritto dal canonico Casati che in quella si ritirava a vivere per mesi intieri il Beato, e che vi era una antica e comune tradizione che per un buco della detta grotta, il quale oggidì ancora si vede, fosse venuto più volte l’Angelo del Signore a visitare il romito, ed anche un corvo che giornalmente gli avesse portato una pagnotta di pane. Ma che che sia di ciò, è certo che la detta Grotta sin’oggidì è tenuta in venerazione, ed è visitata da’ divoti, allorché vengono le Genti in gran numero da’ diversi Paesi». E nel novero delle «Genti» che «da’ diversi Paesi» visitavano con devozione la sacra grotta, Sant’Alfonso inserisce la moltitudine dei pastori abruzzesi di cui egli stesso, nella supplica inoltrata al pontefice Benedetto XIV allo scopo di ottenere la conferma della nuova fondazione, quantifica il numero tra le cinquanta e sessantamila unità. Maggior forza, fino a conferire connotazione documentale alla tesi che il Santo abbia composto in Deliceto la sua pastorale, sono alcuni inediti dello stesso Tannoja, da me rinvenuti presso l’Archivio romano della Postulazione Agostiniana, che ci presentano il sacro speco meta di pellegrinaggi da ogni dove della Puglia e centro devozionale di quelle svariate migliaia di pastori abruzzesi, da Sant’Alfonso definiti «Anime abbandonate», privi di nutrimento spirituale e feriti da povertà e solitudine; bucolicamente avvolti nel melodioso abbraccio delle inseparabili zampogne e risalenti dall’immensa pianura al naturale richiamo di una grotta innevata, già generosa di angeliche visioni celesti e pronta ad offrire, al nostro Santo, il destro per l’annunzio consolatorio di un amore eterno e disinteressato. Dopo aver pianto di fronte a quegli umili pastori, che nella solitudine della lontananza da casa svernavano nei disseminati stazzi degli storici tratturi, e dopo averne sposato gli aspetti più dolorosi in cui veramente vedeva il Cristo nudo e sofferente, centro focale della novenaria predicazione, donò ad essi la melodia più bella perché con le loro zampogne potessero, i poveri pastori d’Abruzzo, diffonderla nelle valli e nei villaggi per poi, preziosa reliquia di un nuovo natale, portarla con sé a casa e dare nuovo calore a quei domestici camini per troppo tempo abbandonati. Altro che clavicembalo di casa Zamparelli. Pagò con la propria salute, Sant’Alfonso, quell’inebriante notte trascorsa al freddo e al gelo: «Seguito a scrivere per altra mano, perché mi ritrovo infermo nel letto con flussione di sangue e catarro di petto e febbre», scrive il 28 dicembre al confratello padre Sportelli in Ciorani, acceso dal desiderio di indirizzare le sue fatiche a beneficio di quella miserabile platea. E, straordinaria notizia, che nitidamente riflette la santa notte di Deliceto nelle diafane stelle foriere d’eterno: in quel 24 dicembre 1744, c’era la neve. Lo apprendiamo per bocca dello stesso Santo che informa il padre Sportelli dell’arrivo in Deliceto, la sera del 27 dicembre dopo tre giorni di faticoso viaggio, dei confratelli don Bernardo Tortora e don Ignazio: «Qui sono arrivati D. Bernardo e D. Ignazio ieri sera lunedi, ad ore ventidue, dopo tre giorni stentati di neve da sotto e sopra. Vostro servo e fratello. Alfonso del SS. Salvatore». Altro elemento biografico che testimonia il trinomio Sant’Alfonso-Natale-Deliceto, ce lo fornisce ancora il Tannoja quando ci informa che il paliotto dell’altare maggiore della chiesa della Consolazione in Deliceto, come quello della chiesa in Ciorani, era stato istoriato da Sant’Alfonso, nelle vesti di artista, con un olio, purtroppo oggi perduto, della santa natività con l’adorazione dei pastori. Non fu un caso che Sant’Alfonso scegliesse le chiese di Ciorani e di Deliceto per dipingervi la Natività. Si tratta dei due luoghi ove più intensamente, e più intimamente, visse le personali emozioni, affettive e spirituali, in rapporto al santo Natale. In Ciorani la mamma gli aveva inviato la statuina del Gesù Bambino in fasce che lo riannodò per sempre ai caldi ricordi infantili dei natali familiari più intimi; sui marmi della mensa eucaristica di Deliceto volle cristallizzare quella celestiale visione in cui non statuine, ma veri pastori, in un’autentica grotta già resa sacra dalla mistica esperienza di un santo riformatore, gli regalarono l’emozione del Natale più bello. Si tratta di un vero e proprio documento, seppur reso in forma pittorica, firmato dal Santo a testimonianza del luogo ove fu investito della celestiale ispirazione. Non solo nelle note di Tu scendi dalle stelle, rimane, comunque, il ricordo dell’olio delicetano perduto. Nel1793, durante il primo anno del sessennio di rettorato del padre Tannoja, nella chiesa delicetana ritornò la raffigurazione della Natività, opera del pittore Domenico Caso. Nel ricordo, evidentemente, della rappresentazione originale, ancora oggi il gruppo dei sei pastori adoranti suggella il momento topico di quella mitica notte dicembrina del 1744. La loro inclusione all’interno della grotta li rende coprotagonisti della scena. Alla sinistra del Bambino, due di essi, fondendosi con il piccolo stuolo degli angeli a bocca chiusa, le cui ali ne delimitano la collocazione, soffiano nelle loro zampogne la melodia che risale verso il cartiglio sommitale della gloria, che altri due angeli reggono stagliandosi nella profondità del cielo. Ed ecco che la zampogna, privilegiata nella sostituzione del coro angelico, diviene il simbolo dell’indissolubile legame tra Deliceto e il Natale pastorale alfonsiano. E se per immortalare quello storico natale Sant’Alfonso elesse il paliotto della chiesa dedicata alla Madonna della Consolazione, lì effigiata nelle vesti di mamma allattante, il Tannoja, già con il Santo residente in quella stessa casa, ci dice, in uno degli inediti di cui sopra, che fu nella grotta sottostante che il «Santo Bambino» rinacque «per mano de’ Sacerdoti». Lo fa con la tristezza di chi, per la colpevole ignoranza di alcuni suoi confratelli, vede crollare la chiesa che sacralmente avvolgeva l’antico speco, irreverentemente trasformato, nel 1769, in profana cantina. Rivolgendosi alla pietosa ed agognata mano di una novella Elena, nome rievocatore della sacrale grotta betlemita sottratta alla profanazione, rievoca i natali lì già celebrati. Nel suo appassionato grido rivive il nostalgico ricordo di quella gelida notte di Natale in cui il suono della sofferta zampogna riscaldò il nato Bambino con le note più belle che dal suo grembo mai fossero uscite: «Spero non mancherà un’Elena pietosa che voglia muoversi a togliere un giorno sì fatta profanazione da dentro quel sacro Speco in cui il Santo Bambino tante volte è rinato mediante il ministero de’ Sacerdoti … e se un giorno fu Casa di Dio, ora non conviene che sia casa di Bacco» |
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